giovedì 27 settembre 2007

Uno, nessuno, centomila

Vi siete mai chiesti qual è l'immagine che gli altri hanno di voi?
Come vi vedono?
E vi siete mai chiesti chi siete realmente?
Quale parte state recitando sulla scena del mondo?


..."La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch'ero io stesso: estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest'uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po' con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d'essere per me, chi ero io?...
"E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un paio d'occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere."
Cosí, seguitando, sprofondai in quest'altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d'un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere...
Non volevo già come un commediante studiar le mie mosse, compormi la faccia all'espressione dei varii sentimenti e moti dell'animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell'animo; per un'improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m'avesse schiaffeggiato, e arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch'io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri. L'espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che l'avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare all'impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.
L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest'estraneo? quest'estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
...


Uno, nessuno, centomila, L.Pirandello


2 commenti:

nino p. ha detto...

si...
me lo sono chiesto molte volte...
ogni volta che scopro qualcosa di me che non so di avere....
ed ogni volta tremo....

Anonimo ha detto...

Di quello che pensano gli altri di me,ME RIMBARZA...